Testa o muscolo? Cosa limita la tolleranza all’esercizio fisico?

Nell’immaginario comune, così come in gran parte della letteratura scientifica, si è sempre ricercato il limite alla tolleranza all’esercizio aerobico nello sfinimento per fatica (centrale o periferica). Parlando quindi di ottimizzazione della performance nell’esercizio, o – del rovescio della medaglia – della fatica, ci si focalizza sempre sui sistemi cardiovascolari e respiratori e sui meccanismi metabolici e neuromuscolari della produzione della forza.

Normalmente, in soggetti motivati, ciò che porta ad interrompere un esercizio aerobico prolungato è lo sfinimento, quel momento in cui la fatica fa sì che il soggetto non sia più in grado di generare un output di forza sufficiente per continuare a svolgere il compito nonostante uno sforzo volontario massimale.

Nell’ambito della fisiologia dell’esercizio per descrivere i meccanismi che limitano l’esercizio ci si è sempre orientati con quello che viene definito il modello della fatica muscolare, nonostante la sua validità non sia accertata.

Così come nella fisioterapia e nelle scienze del dolore ci si è mossi da un modello esclusivamente bio- ad uno biopsicosociale, così gli autori di questo lavoro, Samuele Marcora e Walter Staiano, introducono il modello psicobiologico, basato sulla teoria dell’intensità motivazionale, che vede la percezione dello sforzo come elemento fondamentale (ma non esclusivo) nella regolazione della tolleranza all’esercizio fisico.

Lo studio

Gli autori hanno convocato 10 rugbisti della squadra universitaria di Bangor (UK) e nel primo incontro hanno svolto un test incrementale su un cicloergometro stazionario (2 minuti a 50w + un incremento di 50w ogni 2 minuti) fino a sfinimento (definito operativamente come il momento in cui il soggetto non riesca più a mantenere una cadenza di pedalata superiore alle 60rpm per 5s nonostante i forti incoraggiamenti verbali) per definire il VO2peak ed il picco di potenza aerobica.

Sempre durante il primo incontro, tutti i soggetti sono stati educati all’utilizzo della scala RPE (rate of perceived exertion) a 15 punti di Borg (7 estremamente leggero – 19 estremamente duro) e hanno familiarizzato con il test MVCP (maximal voluntary cycling power). Questo test, poi riutilizzato nei successivi incontri, consiste di 7-8 secondi in totale di pedalata sul cicloergometro al massimo delle proprie possibilità, ma diviso in due fasi: i primi 2-3 secondi senza alcuna resistenza alla pedalata, seguiti da 5 secondi con una resistenza alla pedalata pari al 7,5% della massa corporea del soggetto. Il valore del MVCP viene quindi definito come la media della potenza erogata nei 5 secondi resistiti (durante tutto il test, il soggetto è animatamente supportato da incitamenti verbali).

Il secondo incontro invece è stato così strutturato:

  1. 10 minuti di riscaldamento a 40% del picco di potenza aerobica;
  2. immediatamente dopo il riscaldamento il primo MVCP test (che verrà definito MVCP test allo 0% del tempo di sfinimento);
  3. 30’ di riposo;
  4. Time to exhaustion test (test del tempo allo sfinimento) così impostato: 3 minuti di riscaldamento al 40% del picco di potenza aerobica seguito immediatamente da una fase con un carico di lavoro pari all’80% del picco di potenza aerobica da mantenere il più a lungo possibile. Per incoraggiare i partecipanti erano stati previsti premi in denaro per le migliori performance. Il tempo ad esaurimento veniva calcolato dal momento in cui finivano i 3 minuti di riscaldamento fino al momento in cui il soggetto scendeva sotto le 40rpm per più di 5 secondi. Negli ultimi 15 secondi di ogni minuto di questo test veniva raccolto il punteggio RPE;
  5. immediatamente dopo lo sfinimento veniva proposto il secondo MVCP test (definito in questo caso MVCP test al 100% del tempo di sfinimento).

Nel terzo, quarto e quinto incontro, il protocollo era lo stesso del secondo, però il test del tempo allo sfinimento veniva interrotto al 25%, al 50% ed al 75% determinando così i valori del test MVCP al 25-50-75% del tempo di sfinimento.

I risultati

Nel primo incontro, in seguito al test incrementale, si era definito un picco di potenza aerobica medio per il gruppo di soggetti di 302±30w, così che nel test del tempo allo sfinimento la media della potenza richiesta era di 242±24w.

Come ci si potrebbe aspettare, i risultati del test MVCP mostrano una potenza media decrescente dallo 0% del tempo di sfinimento al 100% del tempo di sfinimento. In altre parole, prima di uno sforzo aerobico mantenuto più a lungo possibile, il test MVCP mostra ovviamente risultati di potenza molto elevati, che calano se il test viene eseguito dopo il 25% del tempo allo sfinimento, si assestano in una sorta di plateau fino al 75% del tempo allo sfinimento, per poi calare drasticamente se il test viene proposto non appena il soggetto ha interrotto lo sforzo aerobico per impossibilità a procedere.

Non solo i valori di stima del carico esterno (potenza) evidenziano l’affaticamento del soggetto, ma anche gli altri parametri di carico interno (FC, lattato ed RPE) dimostrano effettivamente l’impegno psicofisico massimo dei partecipanti nell’espletare la prova del tempo allo sfinimento.

Ma l’informazione più interessante messa in luce da questo studio di Marcora e Staiano può essere colta in quest’altro grafico, in cui è rappresentata per ogni soggetto in nero la potenza espressa durante il test MVCP 100% ed in grigio la potenza richiesta durante il test del tempo allo sfinimento (ovvero la potenza che alla fine dell’esercizio, i soggetti non riuscivano più ad esprimere).

Come si evince chiaramente dal grafico, tutti e 10 i soggetti testati non appena abbandonato il test del tempo allo sfinimento, in cui veniva richiesto di mantenere una potenza di 242±24w, sono riusciti a produrre valori di potenza tre volte più grandi nel MVCP raggiungendo una media di 731±206w.

Discussione

Tornando quindi alle premesse, se considerassimo il modello della fatica muscolare, ci aspetteremmo che, non appena i soggetti abbandonano il compito (mantenere 242±24w) per sfinimento, ad un’ulteriore richiesta di espressione massimale di forza, i watt erogati non sarebbero tanto differenti da quelli richiesti nella prova appena terminata; tuttavia, per la prima volta in questo studio, viene dimostrato che dopo essersi dichiarato sfinito, nonostante gli incentivi remunerativi e gli incitamenti verbali, un soggetto può ancora esprimere valori di potenza addirittura tre volte più grandi rispetto a quelli che non riusciva a mantenere pochi attimi prima

Vengono messi in luce in questo modo fattori non solo fisici (cardiocircolatori, respiratori, muscolari, etc.), ma anche psicologici (motivazione, conoscenza a priori della durata dell’esercizio, etc.). Gli autori quindi proponendo la loro visione rappresentata nel modello psicobiologico descrivono lo sfinimento come una forma di ritiro dal compito piuttosto che di fallimento dello stesso. In altre parole, i partecipanti allo studio decidevano di ritirarsi dal compito o perché lo sforzo richiesto nel test del tempo allo sfinimento superava il massimo dello sforzo che erano disposti a sopportare per portare a compimento la prova (motivazione potenziale) oppure perché tale intensità di sforzo non era pensabile che potesse essere mantenuta più a lungo in base alle proprie capacità percepite. 

Da qui si denota il ruolo cardine che la percezione dello sforzo ha come “stopper” o limitante dell’esercizio fisico. 

Come nel caso del dolore, così anche per la fatica, la percezione intero- ed esterocettiva (fattori “bio”, fattori “psico” e fattori contestuali) ricopre un ruolo fondamentale nel determinare i comportamenti che l’individuo mette in atto in risposta agli stimoli che riceve, si tratti di una performance sportiva, di un esercizio fisico qualsiasi o delle esperienze di vita di tutti i giorni.

Marcora SM, Staiano W. The limit to exercise tolerance in humans: mind over muscle? Eur J Appl Physiol. 2010 Jul;109(4):763-70.
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/20221773/

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