La gestione dell’esercizio terapeutico nei pazienti con dolore cronico

The message is clear: “Get your patient moving.” Yet the question remains: “How?” (1)

È ormai appurato che l’esercizio terapeutico rappresenta uno degli strumenti migliori, tra quelli a nostra disposizione, per la gestione del dolore muscoloscheletrico in termini di costo, efficacia e sicurezza (2,3). Questo è particolarmente vero per quanto riguarda il dolore muscoloscheletrico cronico ma, nonostante ciò, individuare la modalità e la posologia più idonea per i pazienti rimane un processo estremamente complesso a causa di una serie di ostacoli di diversa natura: personali (tipici in particolare del paziente con dolore cronico), ambientali (mancanza di tempo, volontà, disponibilità o supporto) o insiti nelle terapie erogate (eccessiva enfasi sul modello biomedico, comunicazione poco efficace, difficoltà nel valutare e trattare le problematiche di tipo psicosociale, ecc.) (4).

Gli autori di questo articolo si soffermano in particolare su alcuni fattori personali, particolarmente rilevanti per quanto riguarda il dolore cronico a carico delle articolazioni:

  • Iperalgesia indotta dall’esercizio. Mentre nei soggetti sani, in seguito ad un qualsiasi tipo di esercizio, si osserva nel breve termine una riduzione della sensibilità dolorosa (exercise-induced hypoalgesia-EIH), nei pazienti con dolore cronico questo non è sempre vero (5,6). Infatti in questi pazienti, caratterizzati da un dolore maggiormente mediato dall’elaborazione centrale, l’inibizione discendente del dolore probabiomennte non è efficace come nei soggetti sani per effetto della sensibilizzazione del sistema di elaborazione del dolore. Sembrerebbe che, in casi di dolore cronico regionale/localizzato (potenzialmente meno interessati da meccanismi centrali), l’eseguire esercizio generale/aerobico o di rinforzo di un segmento corporeo non dolente possa stimolare l’EIH, mentre questo non è sempre vero se si utilizzano esercizi di rinforzo della parte dolente (5,6). A questo proposito vale la pena ricordare che i due fenomeni contrapposti di ipo/iperalgesia indotta dall’esercizio avvengono nel brevissimo termine, e difficilmente influenzeranno gli outcome a lungo termine del trattamento. Tuttavia, proprio il fatto che nei pazienti con dolore cronico l’esercizio tenda ad essere seguito da un aumento del dolore rappresenta un ostacolo alla somministrazione di questa modalità terapeutica.
  • Comprensione della neurofisiologia del dolore da parte del paziente. Spesso i pazienti interpretano i loro sintomi in un’ottica puramente biomedica, in cui il dolore è un indicatore preciso e affidabile dello stato dei tessuti. La presenza o l’aumento del dolore in seguito all’esercizio verrà quindi visto come un peggioramento del danno strutturale e questo rappresenta un secondo ostacolo all’aderenza del paziente al programma di esercizi.
  • Credenze del paziente e auto-efficacia del dolore. Il punto precedente fa sì che, spesso, i pazienti con dolore cronico siano caratterizzati da bassa auto-efficacia, aspettative inappropriate nei confronti della fisioterapia (ricerca di un magic bullet che risolva miracolosamente i loro problemi) e locus of control esterno.

Questi (e altri fattori) determinano il comportamento dei pazienti con dolore cronico, quando si approcciano all’esercizio o, più in generale, all’attività fisica:

  • Alcuni, interpretando il dolore come l’indicatore di un danno tissutale e poiché l’esercizio tende a elicitare il dolore, tendono ad evitare le attività provocative, entrando così nel circolo vizioso di dolore, paura, evitamento e decondizionamento. Questi individui vengono generalmente denominati Avoider.
  • Altri continuano ad eseguire le attività provocative, ignorando il dolore e i messaggi che il corpo invia loro. Al termine dell’esercizio/attività, il dolore aumenta in maniera sproporzionata, costringendoli a periodi di riposo prolungati. Questi individui vengono generalmente denominati Persister (oppure Boom-Buster (7)).

Entrambi questi approcci all’attività fisica rappresentano un ostacolo all’aderenza del paziente, e tendono a portare il paziente verso un graduale decondizionamento; infatti anche l’atteggiamento dei persister, in cui ad alti carichi vengono inframezzati lunghi periodi di riposo, non garantisce la gradualità e la costanza necessarie perché un carico sia allenante.

È interessante notare come buona parte di questi ostacoli possano essere influenzati positivamente dalla partecipazione del paziente ad un programma di attività fisica! Per aiutarci in questa delicata operazione, gli autori dell’articolo forniscono le seguenti indicazioni:

  • Valutazione. Una valutazione in ottica psicosociale andrebbe eseguita per individuare il meccanismo di elaborazione prevalente (cruciale nell’impostazione dell’esercizio, per i motivi relativi all’EIH illustrati in precedenza), eventuali deficit biomeccanici (deficit di forza, di elasticità o di capacità aerobica), comprendere le credenze e il punto di vista del paziente (comprensione del proprio dolore, causa presunta, ecc.), individuare eventuali ostacoli al trattamento e aspetti ambientali.
  • Preparazione del paziente. Questo processo può avvalersi di strumenti quali la pain neuroscience education (PNE), che hanno la possibilità di modificare le concezioni e i comportamenti  del paziente relativamente al proprio dolore (8). In particolare, è necessario evidenziare che il fatto che il dolore venga elicitato o peggiorato durante o subito dopo l’esercizio non sia un segno di un danno, bensì una risposta esagerata e maladattativa del sistema nervoso. Inoltre, il processo educativo andrebbe continuato durante tutto il percorso riabilitativo del paziente, e non inteso “una tantum”.  In quest’ottica, andrà posta particolare attenzione a proporre l’esercizio in modalità “symptom contingent”, in favore di una modalità “time contingent”, per non potenziare meccanismi di paura-evitamento e una visione biomedica.
  • Personalizzare il programma di esercizi. In quei casi in cui il meccanismo di elaborazione è prevalentemente periferico, la letteratura scientifica raccomanda esercizi specifici. Ricordiamo come gli esercizi a carico del distretto interessato tendano a determinare una diminuzione della soglia del dolore, mentre quelli a carico di altri distretti e quelli aerobici un suo innalzamento. Potrebbe dunque essere indicato utilizzare entrambe le modalità di esercizio, ponendo maggior enfasi sugli esercizi generali/aerobici nella fase iniziale e andare quindi a sostituirli gradualmente con esercizi specifici, mano a mano che si procede. Al contrario, quando l’elaborazione del dolore è prevalentemente a livello centrale, il sistema di inibizione discendente è disfunzionale sia per quanto riguarda gli esercizi specifici, sia per quelli generali/aerobici. In questi casi sarà opportuno “distrarre” il paziente dal dolore, portando la sua attenzione sui miglioramenti funzionali ottenuti. Inoltre, il trattamento si differenzierà a seconda dell’approccio del paziente al dolore. I pazienti persister andranno guidati a normalizzare il pattern oscillante, per garantire stimoli costanti e graduali. Questo obiettivo può essere raggiunto tramite strategie di pacing, che possono essere definite come la modifica dell’intensità o della frequenza di un’attività avente un fine adattivo (9). Generalmente, consiste nel dividere l’attività del paziente in porzioni che non elicitino un incremento marcato e sproporzionato dei sintomi (flare-up), con l’obiettivo di rendere i carichi di lavoro condizionanti. Al contrario,  i pazienti avoider andranno ricondizionati gradualmente. Visti gli stretti legami tra paura e evitamento, la graded exposure potrebbe rivelarsi una metodica efficace per approcciarsi a questi pazienti, con l’obiettivo di ridurre il grado di minaccia associato alle attività. Una volta che si è individuata la modalità più idonea per far muovere il paziente, ovvero una baseline che egli reputi sicura, gestibile e significativa,  si procede con un graduale incremento delle attività o degli esercizi. A questo proposito, è importante che la progressione avvenga secondo un incremento concordato a priori, indipendentemente dal dolore, ovvero in modalità “time/quota contingent”.
  • Migliorare l’aderenza al trattamento. Per raggiungere questo obiettivo, gli autori suggeriscono di continuare a rinforzare con i concetti della PNE durante tutto il percorso riabilitativo e di rispondere in maniera esaustiva alle domande e ai dubbi del paziente. Inoltre, la riabilitazione andrà basata sugli obiettivi, le preferenze, le esperienze pregresse e i livelli di fitness del paziente.
  • Valutazione degli outcome. Secondo l’opinione degli autori, i trial clinici aventi come popolazione di studio individui con dolore cronico dovrebbero valutare i domini dolore, funzionalità fisica, funzionalità emotiva, percezione di miglioramento soggettiva, eventi avversi e inclinazione dei partecipanti.

Bibliografia

1. Meeus M, Nijs J, van Wilgen CP, Suzie N, Goubert D, Ivan H. Moving on to Movement in Patients with Chronic Joint Pain – IASP [Internet]. 2016 [cited 2020 Apr 3]. Available from: https://www.iasp-pain.org/PublicationsNews/NewsletterIssue.aspx?ItemNumber=5351
2. Lin I, Wiles L, Waller R, Goucke R, Nagree Y, Gibberd M, et al. What does best practice care for musculoskeletal pain look like? Eleven consistent recommendations from high-quality clinical practice guidelines: Systematic review. Vol. 54, British Journal of Sports Medicine. BMJ Publishing Group; 2020. p. 79–86.
3. Lewis J, O’Sullivan P. Is it time to reframe how we care for people with non-traumatic musculoskeletal pain? Vol. 52, British Journal of Sports Medicine. BMJ Publishing Group; 2018. p. 1543–4.
4. Kroll HR. Exercise Therapy for Chronic Pain [Internet]. Vol. 26, Physical Medicine and Rehabilitation Clinics of North America. W.B. Saunders; 2015 [cited 2021 Apr 18]. p. 263–81. Available from: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/25952064/
5. Rice D, Nijs J, Kosek E, Wideman T, Hasenbring MI, Koltyn K, et al. Exercise-Induced Hypoalgesia in Pain-Free and Chronic Pain Populations: State of the Art and Future Directions. J Pain [Internet]. 2019 Nov 1 [cited 2020 Apr 3];20(11):1249–66. Available from: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/30904519
6. Naugle KM, Fillingim RB, Riley JL. A meta-analytic review of the hypoalgesic effects of exercise. Vol. 13, Journal of Pain. 2012. p. 1139–50.
7. Butler D, Moseley GL. Explain Pain 2o Edition. Adelaide: NOI group publications; 2013. 133 p.
8. Louw A, Puentedura EJ. Therapeutic Neuroscience Education, Pain, Physiotherapy and the Pain Neuromatrix. Int J Heal Sci. 2014;2(3).
9. Nielson WR, Jensen MP, Karsdorp PA, Vlaeyen JWS. Activity pacing in chronic pain: Concepts, evidence, and future directions [Internet]. Vol. 29, Clinical Journal of Pain. Clin J Pain; 2013 [cited 2021 Apr 19]. p. 461–8. Available from: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/23247005/

Meeus M, Nijs J, Van Wilgen P, Noten S, Goubert D, Huijnen I. Moving on to movement in patients with chronic joint pain. PAIN: CLINICAL UPDATES. 2016;24(1):1–8.

https://www.iasp-pain.org/PublicationsNews/NewsletterIssue.aspx?ItemNumber=5351

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